EVOLUZIONE VERSO IL NUOVO PARADIGMA (Prima Parte)
Secondo il medico tedesco Ryke Geerd Hamer, l’eziologia delle malattie va ricercata nella psiche. Dai suoi studi, egli giunge alla conclusione che l’inizio del processo di malattia è rappresentato da un evento shockante, che colpisce l’individuo in maniera inaspettata, da lui definito Sindrome di Dirk Hamer (DHS).
Il lavoro di Hamer s’inserisce all’interno dello storico filone di ricerca psicosomatico, ma le conclusioni a cui arriva completano così tanto il quadro da andare a ridefinire nella sostanza il concetto stesso di malattia. La reazione del mondo accademico non fu favorevole, ma le recenti acquisizioni della neurobiologia spiegano esattamente cosa succede a livello psichico, cerebrale ed organico durante la DHS e come mai la tutta ricerca sullo stress abbia fallito, mantenendo i ricercatori all’interno dell’antica convinzione della malattia come “errore della natura”.
Dott. Danilo Toneguzzi, psichiatra, psicoterapeuta; presidente Comitato Scientifico di ALBA (Associazione Leggi Biologiche Applicate)
Nel 1981 il dott. Hamer condensò nella “Legge ferrea del cancro” la prima legge biologica da lui scoperta: ogni programma speciale, biologico e sensato (SBS) inizia con una DHS (Sindrome di Dirk Hamer), cioè con uno shock conflittuale gravissimo, inaspettato, altamente drammatico e vissuto nell’isolamento (Hamer, 1981). La scoperta che le malattie corrispondono ad un processo biologico con una sequenza di fasi ben precise (programma SBS) e che sono causate da un evento psichico con determinate caratteristiche (DHS) ha posto le basi per una nuova comprensione della genesi della malattia e per un definitivo superamento del dualismo tra mente e corpo.
Con la formulazione della legge ferrea del cancro, il dott. Hamer ha posto una pietra miliare verso un cambio di paradigma, una vera e propria rivoluzione copernicana che ha permette finalmente di poter dare risposte molte più esaustive alla domanda che dalla notte dei tempi l’uomo si pone, cioè: “Perché ci si ammala?”, e che ridefinisce la malattia, nella sua sostanza, come evento sensato dell’organismo, e non come un evento “sbagliato” come si era, invece, sempre pensato.
DHS è l’acronimo di Sindrome di Dirk Hamer, nome che il dott. Hamer diede all’evento che lo colpi personalmente nel 1978, quando suo figlio fu ucciso e che, in seguito, gli causò un cancro al testicolo. La DHS è un evento che colpisce l’individuo in maniera inaspettata, uno shock acuto, drammatico che lo coglie in contropiede e che da luogo ad una cascata di eventi biologici; tra l’altro, tali conseguenze, attivate dalla DHS, da sempre indicate con i termini di “sintomi” o “malattia”, non sono casuali ma seguono una sequenza precisa andando a costituire un processo biologico denominato, invece, dal dott. Hamer “Programma SBS”, dove SBS sta per “sensato”, “biologico” e “speciale”.
La DHS, quindi, da avvio ad un programma SBS; in altri termini, uno shock inaspettato determina l’attivazione di un funzionamento normalmente inteso come patologico dell’organismo. Per dirla in termini ancora diversi, un evento psichico sta alla base e determina un evento fisico e quindi la malattia è la precisa espressione sul corpo di un preciso evento emotivo.
Le conclusioni a cui giunge Hamer si inseriscono all’interno di un lungo filone di ricerca e ne completano magistralmente il quadro; ma vediamo, nello specifico, come è avvenuto tutto ciò.
Antecedenti nella letteratura del Novecento.
Nella letteratura scientifica e tradizionale, l’idea di una correlazione tra eventi emotivi e malattie, in realtà, viene da molto lontano, soprattutto da quando, nel secolo scorso, si è aperto un filone di ricerca in merito allo “stress” e alle sue conseguenze sulla salute. Pioniere di tale filone fu Hans Selye il quale, scrivendo una lettera alla rivista “Nature” già nel 1936 diede avvio a questo campo d’indagine che, a tutt’oggi, si stima abbia prodotto non meno di 150.000 pubblicazioni (Favretto, 1994). Gli studi sullo stress, infatti, iniziati da Selye ma proseguiti successivamente da altri numerosissimi ricercatori, rappresentano i pilastri delle concezioni da cui si è sviluppata la Medicina Psicosomatica in tutta la seconda metà del Novecento. Ma il successo della Medicina Psicosomatica rimane a tutt’oggi quanto mai controverso: nonostante una serie di acquisizioni più o meno accettate, lascia aperti alcuni interrogativi fondamentali. Ad esempio, come si spiega la scelta dell’organo? Cioè, perché lo stress determinerebbe in alcuni soggetti una dermatite ed in altri un’asma? Oppure, perché determinati soggetti, visibilmente stressati, non si ammalano? E perché qualcuno, pur conducendo una vita, tutto sommato, tranquilla, sviluppa un tumore? Ed infine, perché spesso si può notare che le persone non si ammalano sotto stress, ma quando lo stress finisce, come ad esempio nel caso dell’emicrania da week-end o nel caso in cui gli individui si ammalano quando vanno in vacanza? A questi interrogativi la medicina psicosomatica non è mai riuscita a dare delle risposte precise e univoche.
In ogni caso, gli antecedenti delle acquisizioni che connettono gli eventi psichici agli eventi fisici vanno ricercati già all’inizio del secolo scorso. Un contributo fondamentale avvenne ad opera di Walter Cannon, il quale diede una svolta fondamentale nella comprensione dei meccanismi di funzionamento dell’organismo formulando la teoria dell’omeostasi (Cannon, 1932). Nel continuo rapporto con l’ambiente in cui è immerso, cioè, l’organismo vivente è impegnato incessantemente nel mantenere costanti le condizioni del suo ambiente interno: l’omeostasi, quindi, è, al tempo stesso un mezzo ed un fine per la sopravvivenza degli individui. In questo processo di continuo adattamento, l’organismo interviene sull’ambiente e reagisce ad esso per mantenere l’equilibrio. Cannon identificò tra queste reazioni dell’organismo impegnato nel processo di adattamento una specifica forma che chiamòreazione d’allarme, ovvero una risposta automatica che viene attivata in determinate condizioni particolari. Egli aveva messo in evidenza, ad esempio, come un incremento della secrezione di adrenalina e noradrenalina da parte della porzione midollare delle ghiandole surrenali avesse una funzione indispensabile, anche negli animali, nel predisporre l’organismo a comportamenti di attacco e di fuga. Tale reazione si accompagna, infatti, all’aumento della pressione sanguigna, all’incremento della frequenza cardiaca, alla vasocostrizione periferica, alla dilatazione pupillare, alla riduzione della salivazione, all’incremento della funzionalità respiratoria, all’aumento della sudorazione, ecc (Cannon, 1929).
La ricerca sullo stress.
Selye, il ricercatore che, come detto poc’anzi, aprì la strada a tutto il filone di ricerca sullo stress e sul concetto di psicosomatica, scoprì successivamente che le reazioni fisiologiche studiate da Cannon non erano le uniche manifestate da un organismo in difficoltà ma che costituivano una concatenazione di eventi omeostatici e modificazioni fisiologiche nella funzione di adattamento di cui la reazione d’allarme non è che il primo passo. Per questo, prendendo a prestito un termine dalla metallurgia che indicava gli effetti delle grandi pressioni sui metalli, Selye denominò stress quel insieme di modificazioni a carico dell’organismo e, più specificatamente, Sindrome Generale di Adattamento quel processo, articolato in tre fasi e finalizzato all’adattamento, scatenato da stimoli stressanti di natura diversa (Selye, 1936).
Per Selye, lo stress è “una risposta generale, aspecifica dell’organismo a qualsiasi richiesta proveniente dall’ambiente” (Selye, 1974). Il concetto fondamentale consiste nell’evidenziare qualcosa che avviene generalmente, in modo aspecifico, indipendentemente dalla natura dello stimolo. Da questo punto di vista, la teoria della Sindrome Generale di Adattamento di Selye fu estremamente innovativa: con il suo carattere aspecifico venne messa in luce l’esistenza di un meccanismo che elude la tradizionale visione che un effetto, una risposta biologica, sia sempre riconducibile ad una sola causa. Tradizionalmente, infatti, si era portati a ritenere che la risposta dell’organismo fosse specifica al tipo di richiesta: ad esempio la sudorazione come reazione al caldo, il brivido come risposta al freddo e così via. Selye, invece, enfatizza una risposta aspecifica, una sindrome generale che ha la funzione di favorire l’adattamento dell’organismo ad uno stimolo “stressante”, indipendentemente dalla sua natura, dove la reazione d’allarme di Cannon rappresenta solo il primo passo.
Passo dopo passo, le considerazioni di Selye giunsero a considerare lo stress come un fenomeno naturale e fisiologico e, come tale, qualcosa che non può e non deve essere evitato: “La completa libertà dallo stress è la morte. Contrariamente a quello che si pensa solitamente, non dobbiamo e, in realtà, non possiamo evitare lo stress, ma possiamo incontrarlo in modo efficace e trarne vantaggio imparando di più sui suoi meccanismi, ed adattando la nostra filosofia dell’esistenza ad esso” (Selye, 1974)
Mosso dalle sue osservazioni, Selye tentò di interpretare in modo semplice la concatenazione di eventi biologici, di meccanismi e di risposte che, se da un lato si connettevano alle scoperte di Cannon sulla generale reazione d’allarme e sull’idea dell’organismo impegnato costantemente nella funzione omeostatica e di adattamento, dall’altro non apparivano giustificabili nell’ambito di una scienza biomedica che in quei tempi si sosteneva in modo molto strutturato sullo studio delle manifestazioni patologiche come effetti specifici di cause specifiche. Pertanto l’obiettivo che coinvolse Selye fino alla fine fu quello di ricercare quel principio o quella sostanza biochimica in grado di giustificare quel complesso di reazioni che lui aveva considerate generalizzate e sintoniche in grado di presentarsi stereotipate anche di fronte a richieste e a stimoli ambientali (nocivi e non) ampiamente diversi. Questo ipotetico “first mediator”, come lo definì Selye, o “mediatore unico” era quella sostanza, presente in tutti i tipi di stress, in grado di giustificare e di spiegare una così ampia e variegata gamma di cambiamenti: una sostanza in grado di scatenare la medesima Sindrome Generale di Adattamento da stimoli molto diversi. In primis egli identificò questo mediatore unico nell’ormone adrenocorticotropo ACTH, che sembrava essere presente in tutte le risposte di stress negli animali da laboratorio; successivamente, però, dal momento che l’ACTH è presente prevalentemente in una delle tre fasi della sindrome, Selye ipotizzò che probabilmente il mediatore unico andava ricercato nelle sostanze che negli anni Ottanta vennero isolate nel cervello, le encefalite e le endorfine.
Nello specifico, la Sindrome Generale di Adattamento descritta da Selye si articola in tre fasi fondamentali.
La prima fase s’identifica con la reazione di allarme scoperta da Cannon e denominata anche da Selye, per l’appunto, fase d’allarme. Essa è caratterizzata dalle attivazioni del sistema neurovegetativo, di tipo adrenergico, in cui la secrezione delle principali catecolamine, adrenalina e noradrenalina, permette una rapida reazione del sistema nervoso autonomo simpatico. Adrenalina e noradrenalina, infatti, sono due ormoni secreti dalla midollare del surrene che vengono utilizzati quali mediatori intersinaptici nel sistema simpatico e che permettono un’immediata risposta del nostro organismo ad uno stimolo stressante. La fase d’allarme, tra l’altro, viene suddivisa da Selye in due sottofasi: la fase dello shock, che corrisponde ad un’iniziale caduta al di sotto del livello fisiologico di funzionamento dell’organismo, e quella di controshock, che corrisponde, di fatto al secondo momento, reattivo, nel quale si attiva il sistema simpatico grazie l’intervento delle catecolamine. In ogni caso, la fase di allarme è necessariamente rapida ed immediata, ma anche labile, vista la velocità con la quale adrenalina e noradrenalina vengono metabolizzate.
La fase successiva della Sindrome Generale di Adattamento è chiamata da Selye fase di resistenza. Questa fase ha una durata maggiore ed è sostenuta da fenomeni endocrini in cui l’ACTH ed altri ormoni adenoipofisari, cioè della porzione anteriore dell’ipofisi, hanno una funzione fondamentale. Se, quindi, nella risposta ormonale immediata della fase d’allarme viene sollecitata la midollare del surrene, nella fase di resistenza è la parte corticale del surrene ad essere interessata, con il rilascio degli ormoni glucocorticoidi, in particolare del cortisolo. L’effetto di tali ormoni è sempre quella, come nel caso delle catecolamine, di mantenere alta l’attivazione del sistema nervoso simpatico, che predispone l’organismo alle azioni necessarie ai fini dell’adattamento. La fase della resistenza perdura tutto il tempo nel quale permane lo stimolo stressante e, secondo Selye, sarebbero proprio i fenomeni legati allo stress, ed in particolare alla fase di resistenza della Sindrome Generale di Adattamento, a contribuire a quelle manifestazioni di deterioramento che vedono nella vecchiaia l’espressione più visibile. Se la fase di resistenza perdura troppo a lungo, infatti, si manifesta nell’organismo la terza fase, secondo Selye della Sindrome Generale di Adattamento, che egli denominò fase di esaurimento, nella quale si assiste ad un vero e proprio sfiancamento delle risorse dell’organismo, con una perdita graduale della vitalità stessa e l’insorgenza, quindi, di malattie.
In sintesi, quindi, secondo Selye, lo stress viene visto come una reazione fisiologica aspecifica, finalizzata all’adattamento, a qualunque richiesta di modificazione esercitata sull’organismo da una gamma assai ampia di stimoli eterogenei, ed espressa essenzialmente da variazioni di tipo endocrino (attivazione della midollare e della corteccia del surrene) che sbilanciano il sistema neurogetativo a favore del sistema simpatico. I punti salienti sono quindi:
- il carattere di aspecificità;
- il carattere fondamentalmente adattivo;
- il carattere di reazione neurovegetativa a mediazione endocrina.
La teoria di Selye, che in ogni caso aprì la strada ad un ricchissimo filone di ricerca, manifestò ben presto delle lacune. In primo luogo, le ricerche effettuate da Selye partivano dall’analisi degli effetti sull’organismo da parte di agenti stressanti fisici o chimici messi a diretto contatto con l’organismo, come inoculazione di sostanze o contatto con agenti fisici; sappiamo, però, dall’esperienza che non soltanto tali stimoli, fisici o chimici prossimali, sono in grado di produrre risposte di stress: anche agenti distali, quali un evento relazionale o un’informazione, possono rivelarsi fonti di stress che, quindi, inducono una risposta non tanto sulla base di una componente fisica misurabile, quanto piuttosto sulla base della risonanza psicologica soggettiva che sono in grado di determinare. Questa considerazione ha aperto tutto un filone di ricerca sul significato simbolico e sulla risonanza intrapsichica che determinati stimoli detengono, evidenziando significative variabilità che differenziano risposte di individui diversi nei confronti di uno stesso stimolo. In secondo luogo, se stimoli così diversi possono indurre una reazione biologica da stress, come è possibile che esista un unico identico fattore neurormonale, come era stato identificato l’ACTH, quale mediatore comune (first mediator)? Infine, a proposito del carattere di aspecificità, se la risposta di stress è unica, perché gli individui si ammalano di malattie diverse?
Il ruolo delle emozioni.
Le ipotesi su quale fosse l’agente di attivazione della Sindrome Generale di Adattamento si spostarono, pertanto, dall’idea originaria di Selye di un unico mediatore biochimico a quel substrato di natura psicofisiologica che coincide, di fatto, con le strutture ed i meccanismi che sostengono le emozioni. Esponente di maggior spicco di tale ipotesi fu J. Mason il quale, partendo dall’osservazione che l’asse ipotalamo-ipofisi-corticosurrene reagisce ad un gran numero di stimoli psicosociali, suscettibili di indurre una reazione emozionale e che la reazione corticosurrenale a stimoli emotivi è sostanzialmente identica a quella descritta da Selye nella fase di resistenza della reazione da stress, effettuò una serie di ricerche basate sulla dissociazione dello stimolo fisico dallo stimolo emotivo nello stress dando un sostegno empirico alla teoria da lui formulata secondo la quale il mediatore nella reazione da stress sarebbe proprio l’emozione (Mason, 1971). In questa prospettiva, sia l’attivazione del sistema ipotalamo-ipofisi-corticosurrene che l’attivazione della midollare del surrene che seguono all’esposizione a stimoli fisici di varia natura sarebbero comunque una diretta conseguenza dell’eccitamento emozionale che accompagna o precede immediatamente la stimolazione fisica. A svolgere un’azione generalizzante sarebbero, quindi, per Mason, i medesimi meccanismi psicofisiologici coinvolti nelle emozioni e sostenuti dagli apparati neuroanatomici che presiedono alla genesi, al mantenimento ed al verificarsi delle manifestazioni centrali e periferiche legate alle emozioni stesse.
La prospettiva di Mason fu particolarmente significativa dal momento che, attribuendo un ruolo fondamentale alle implicazioni emotive, ha permesso di comprendere meglio i dati sperimentali che depongono in favore sia della specificità che della aspecificità dello stress.
La ricerca sullo stress parte, quindi, dall’osservazione di determinate reazioni generali dell’organismo in risposta a richieste ambientali generate da stimoli di natura diversa; la compresenza, però, sia di elementi aspecifici, come la Sindrome Generale di Adattamento, che di elementi specifici in base alla natura degli stimoli, ha indirizzato progressivamente tali ricerche sul versante delle reazioni emotive e sulle loro implicazioni, un campo di studio, peraltro, quanto mai controverso e difficile in tutta la storia delle neuroscienze. Anche il ruolo e i meccanismi di funzionamento delle emozioni, infatti, hanno rappresentato da sempre un campo di indagine da parte di filosofi e scienziati, senza giungere, di fatto, ad una definizione e ad una comprensione unanimemente condivisa: come affermano Fehr e Russel, “ognuno sa cos’è un’emozione finché gli si chiede di definirla” (1984)
L’importanza delle emozioni nelle reazioni dell’organismo finalizzate all’adattamento e, nello specifico, nella Sindrome Generale di Adattamento ha portato, in ogni caso, alcuni ricercatori ad elaborare il concetto di stress psicologico, indirizzando, così, inevitabilmente, questo filone di ricerca sempre più nella strada delle correnti psicologiche.
Magda Arnold, dapprima, e Richard Lazarus, successivamente, hanno, ad esempio, centrato le loro ricerce sul concetto di “valutazione soggettiva” dello stimolo stressante: se uno stimolo non è valutato come rilevante per l’individuo, a livello conscio o inconscio, non si verifica alcuna attivazione emozionale e dunque non sarà considerato stressante. Questa prospettiva, che vede, quindi, nella valutazione congitiva la “condizione necessaria e sufficiente dell’emozione” rimane tuttora la pietra angolare della prospettiva cognitivista (Lazarus, 1991).
Una voce particolarmente importante, che si distaccò dalla corrente più accreditata in merito alla ricerca sullo stress e che, come spesso succede, fu boicottato dall’estabilishement accademico, fu Henri Laborit, un biologo francese che negli anni Settanta scoprì che i disordini somatici causati da aggressioni psicosociali sono provocati da uno stato particolare che lui denominò di inibizione dell’azione. In seguito scoprì anche che l’inibizione dell’azione persistente provocava disturbi a carico della memoria.
Nelle sue ricerche, Laborit utilizzava la procedura dell’invio di uno stimolo doloroso (una scossa di corrente) a dei ratti rinchiusi in una gabbia.
Nella prima situazione, il ricercatore mandava la scossa sul pavimento della gabbia, comunicante attraverso una porta con un’altra gabbia non raggiunta dalla corrente: alla scossa, il ratto imparava velocemente a passare nell’altra gabbia e se le condizioni si invertivano (la scossa era inviata nella gabbia in cui il ratto era fuggito) questi ritornava velocemente nella prima. Sottoposto a tali stress per una settimana, il ratto non presentava alcuna lesione patologica: la sua salute restava eccellente.
Nella seconda situazione, la gabbia su cui veniva inviata la scossa elettrica non comunicava con nessun’altra gabbia ma all’interno venivano posti due ratti, anziché uno solo, come nella prima situazione. Alla scarica elettrica, i ratti non potevano fuggire e iniziavano a lottare tra di loro: dopo una settimana di esposizione a tale stress, le loro condizioni di salute si rivelavano eccellenti.
Nella terza situazione, la gabbia era sempre isolata ed il ratto era solo. Alla scarica elettrica, il ratto non poteva fuggire né combattere con qualcun altro: dopo una settimana, presentava segni di dimagrimento importante, ipertensione arteriosa e lesioni multiple alla mucosa gastrica.
Henri Laborit imposta lo studio del cervello e dello stress attraverso il concetto di aggressione: “Quando incontriamo nell’ambiente esseri e cose che ci sono gradevoli, che ci permettono di mantenere questo principio del piacere, nei mammiferi abbiamo un sistema che permette di memorizzare la strategia che abbiamo utilizzato, la nostra esperienza: ricominciamo lo stesso comportamento per ritrovare il piacere. (…) Se invece, al contrario, il vostro contatto con l’ambiente é pericoloso, se non fa piacere, se é doloroso, cominciate a fuggire e, se non potete fuggire, combattete, vale a dire vi orientate verso l’ambiente per distruggere l’oggetto del vostro risentimento.
“La novità, la scoperta é che, quando non potete né farvi piacere, né fuggire, né lottare, vi inibite.
Il significato biologico dell’inibizione é: meglio non agire, per non essere distrutti dall’aggressione.
Ciò va bene se serve a salvare al momento la vostra pelle, la vostra struttura.
Ma se non siete in grado di sottrarvi molto rapidamente, da questo stato di inibizione, di attesa in tensione, allora in quel momento comincia tutta la patologia” (Laborit, 1970).
Il significato biologico dell’inibizione é: meglio non agire, per non essere distrutti dall’aggressione.
Ciò va bene se serve a salvare al momento la vostra pelle, la vostra struttura.
Ma se non siete in grado di sottrarvi molto rapidamente, da questo stato di inibizione, di attesa in tensione, allora in quel momento comincia tutta la patologia” (Laborit, 1970).
Secondo Laborit, questa inibizione d’azione si accompagna alla liberazione di ormoni come i glucocorticoidi e neuro-ormoni come la noradrenalina che tendono ad indebolire fino a distruggere il sistema immunitario. Ciò genera vulnerabilità alle infezioni ed ai tumori. Non si fa un cancro per caso, sostiene Laborit e la lista delle malattie dell’adattamento é lunga.
La sindrome d’inibizione dell’azione, che s’instaura allorché l’aggressione psicosociale si protrae nel tempo e non é risolvibile né con la lotta né con la fuga, ha un aspetto chimico, un aspetto neurofisiologico ed un aspetto comportamentale.
Per Laborit, la salute non è soltanto il mantenimento dell’omeostasi ristretta, dell’equilibrio interno, ma significa mantenere il proprio equilibrio in relazione all’ambiente esterno, con il quale dobbiamo negoziare in continuazione le condizioni per il nostro equilibrio. Quando ciò non è possibile, la risposta naturale è la lotta o la fuga per eliminare ciò che ci impedisce di essere in equilibrio. Ma se le condizioni ambientali non ci consentono né di gratificarci, né di lottare, né tanto meno di fuggire, l’ambiente ci modifica al di là delle possibilità di difesa. In questo caso, si dice che “subiamo l’ambiente”, in altre parole ne riceviamo un’aggressione, e allora il rapporto con l’ambiente ci disorganizza. Per Laborit, quindi, è nell’aggressione, intesa in questi termini, che tutte le dis-regolazioni e le patologie hanno inizio.
La Medicina Psicosomatica.
L’ipotesi, quindi, di una correlazione tra mente e corpo, tra eventi psichici ed eventi fisici ha alimentato nel corso della storia prevalentemente la ricerca intorno allo stress e ai suoi meccanismi; questo concetto ha subito una graduale evoluzione, sulla, base comunque della formulazione originaria di Selye. Paolo Pancheri, nella sua opera “Stress, Emozioni, Malattia”, un classico della Medicina Psicosomatica, definisce lo stress come “la risposta dell’organismo ad ogni richiesta di modificazione effettuata su di essa. Questa risposta si manifesta sia a livello fisiologico che a livello comportamentale, ed è mediata da un’attivazione emozionale indotta da una valutazione cognitiva del significato dello stimolo. Essa è relativamente aspecifica, nel senso che un’ampia gamma di stimoli può innescarla, ma personalizzata in rapporto al significato dello stimolo per il singolo individuo, e alle sue modalità di reazione psicofisiologica. Lo stress è, di per sé, una reazione fisiologica, adattativa, caratteristica della vita, che può tuttavia assumere un significato patogenetico quando è prodotta in modo troppo intenso per lunghi periodi di tempo o quando è ostacolata nel suo regolare svolgimento.” (Pancheri, 1979)
Alla fine degli anni Settanta, quindi, proprio nel periodo in cui il dott. Hamer fu colpito dalla sua tragedia familiare, le acquisizioni inerenti il rapporto tra emozioni e malattia, patrimonio ormai decennale dei ricercatori, erano fondate sul concetto di stress e sulle sue conseguenze nell’organismo. Queste acquisizioni potevano essere così riassunte:
- Esistono dei meccanismi di attivazione dell’organismo, la cosiddetta Sindrome Generale di Adattamento, che vengono innescati da stimoli stressanti, cioè in grado di produrre tale mobilitazione organismica.
- Gli agenti stressanti possono essere sia di natura fisica o chimica così come di natura psicosociale, agendo, pertanto, direttamente o mediante l’intervento delle funzioni psichiche ed emozionali. Esiste, pertanto, una soggettività della risposta.
- Tale attivazione avviene attraverso la mediazione dei sistemi reattivi emozionali che agiscono sul sistema neuroendocrino ed immunitario. Gli agenti stressanti, quindi, vanno ad alterare le funzioni del sistema neurovegetativo, del sistema endocrino e del sistema immunitario.
- Esistono risposte specifiche e risposte aspecifiche che si sintonizzano con tre parametri fondamentali: lo stato psicofisiologico precedente l’evento, i fattori endogeni, come il patrimonio genetico e le caratteristiche di personalità, e i fattori esogeni legati all’apprendimento, all’alimentazione, all’uso di farmaci, ecc.
- Tutta questa catena di eventi biologici, la cosiddetta “risposta individuale di stress” può essere considerata un “precursore di malattia” Gli agenti stressanti influenzano, quindi, il “terreno biologico” sul quale si può inserire la malattia.
La spiegazione, poi, della scelta dell’organo avveniva sulla base delle seguenti ipotesi:
- Predisposizione genetico-costituzionale o “debolezza d’organo”. Questa, in realtà, è la posizione della medicina organicistica, che nega l’influenza dei fattori emozionali nella genesi della malattia.
- Teorie psicodinamiche. Secondo questi modelli, che affondano le loro radici nella corrente psicoanalitica, gli stimoli esterni attiverebbero dei conflitti inconsci, secondo un meccanismo di “conversione simbolica” mediata dai meccanismi psichici di difesa.
- Teorie comportamentistiche. Secondo questi modelli la risposta dell’organo è appresa, secondo dei meccanismi di stimolo e rinforzo.
- Teorie psicosociali. Secondo questo modello la malattia è legata alle pressioni dell’ambiente ad opera degli stimolo stressanti. Stimoli ambientali specifici interagirebbero con i programmi di risposta biologici dell’individuo, determinati in parte geneticamente ed in parte in base alle esperienze infantili.
- Teoria della personalità. Secondo questo modello sarebbero elementi della personalità individuale a predisporre l’individuo a determinate malattie piuttosto che altre, come la personalità di tipo A, individuata quale fattore predisponente le malattie di tipo cardiologico.
- Modelli integrativi. Alcune teorie cercano di “integrare” le varie ipotesi in un modello onnicomprensivo, nel quale vengono presi in considerazione sia gli aspetti comportamentali delle emozioni che quelli biologici. Secondo tali modelli, la reazione dell’organismo si manifesta sia su base biologica che comportamentale.
Tali considerazioni rappresentavano lo scenario della ricerca della fine degli anni Settanta, ma non sono molto diverse da ciò che la ricerca ha elaborato in merito ai meccanismi psicosomatici nei decenni successivi, fino ai giorni nostri. Il concetto che colpisce maggiormente è quello della “predisposizione alla malattia” o “precursore di malattia” o “terreno biologico”: lo stress agirebbe in definitiva in tale direzione, favorendo, cioè, l’insorgenza delle malattie nel momento in cui gli stimoli stressanti altererebbero le condizioni biologiche dell’organismo.
In definitiva, si potrebbe riassumere che tutta la ricerca sullo stress, quindi, proseguita con lo sviluppo e le elaborazioni della medicina psicosomatica, invece di arrivare ad una spiegazione finalmente plusibile in merito all’origine della malattia e soprattutto che andasse oltre la tradizionale separazione tra malattie del corpo e della psiche, ha aggiunto un’ipotesi in più, rendendo ancora più confusa l’etiologia con i concetti di multicausalità o multifattorialità. Tutta la ricerca sullo stress, in definitiva, lascia sostanzialmente intatta la concezione millenaria che la malattia è “qualcosa”, un’”entità” – ovviamente sbagliata, temibile e da combattere – che può colpire l’organismo, senza che nessuno possa dire perché.
Afferma Pancheri, infatti: “alla luce di quanto è emerso dallo studio dello stress dalla prima formulazione di Selye fino ad oggi, appare chiaro come tale suddivisione (tra malattie somatiche e malattie psicosomatiche) sia priva di significato, e come stressors di varia natura (fisica, biologica o psicosociale) possano, direttamente o attraverso una mediazione emozionale, influenzare il terreno biologico sul quale si inserisce la malattia” (1979)
Il concetto immutato di malattia.
La “malattia”, quindi, è salva! Chiamata anche “entità nosografia”, la patologia non centra con lo stress: quest’ultimo è responsabile solamente di renderle la vita più facile. La presunta unificazione tra mente e corpo rimane viva solo nelle parole. Sempre il padre della medicina psicosomatica italiana afferma, infatti, ancora: “Alcune malattie possono ancora essere considerate come prodotte da un’unica causa (ad esempio la paraplegia da sezione del midollo spinale), ma in molte altre, definite spesso come idiopatiche o essenziali, l’eziologia è certamente pluricausale, senza possibilità di individuare una causa predominante. Anche dove, tuttavia, un agente patogeno appare strettamente connesso a una particolare malattia, è possibile quasi sempre individuare una serie di concause dotate di potere patogeno a livello del terreno biologico. Ogni malattia dove sia individuabile un agente patogeno principale, infatti, può essere vista come la risultante di due fattori: l’aggressività dell’agente patogeno da un lato e le condizioni dei sistemi biologici di difesa (il terreno) dall’altro” (Pancheri, 1979).
Negli ultimi trent’anni, la ricerca sullo stress ed, in particolare, la medicina psicosomatica hanno imboccato, purtroppo, un tunnel da cui non riescono più ad uscire ed hanno determinato l’esatto opposto di ciò che probabilmente era nelle loro intenzioni originarie: cercando, probabilmente di riunire l’organismo in una visione olistica, lo ha spezzettato ancora di più!
“La funzionalità e la ricettività di questi sistemi (neurovegetativo, endocrino e immunitario) sono a loro volta controllate da una serie di fattori reciprocamente ineìteragenti tra loro: la struttura genetico-costituzionale, l’imprinting psicobiologico, l’ambiente fisico e, infine, i determinanti emozionali e psicosociali.
I determinanti emozionali e psicosociali, e la reazione di stress da essi dipendente, sono dunque sempre delle concause nella genesi delle malattie a etiologia totalmente o parzialmente multicausale. Essi, a seconda del momento in cui agiscono, della loro intensità e durata e della loro interazione con altri determinanti, possono agire come elementi predisponesti o come fattori scatenanti. Il punto importante da sottolineare è che, allo stato attuale delle nostre conoscenze, non è dimostrato un rapporto specifico tra tipo di attivazione emozionale e tipo di malattia somatica sviluppata anche quando il ruolo determinante dello stress emozionale è stato accertato.
Le differenze nel tipo di malattie sviluppate per cause emozionali dipendono dalla particolare vulnerabilità dei singoli organi a sua volta dipendente da fattori puramente fisico-biologici o genetico-costituzionali” (Pancheri, 1979).
Su questi presupposti e su queste conclusioni del filone di ricerca psicosomatico, alla fine degli anni Settanta, inizia la ricerca di Hamer …CONTINUA NEL PROSSIMO ARTICOLO.
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fonte: stampalibera
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