Nutri i tuoi demoni e risolvi i conflitti interiori con la saggezza.
Nutri
i tuoi demoni (no, il satanismo non c’entra)
Se
entriamo in un antico tempio buddhista (come in tante cattedrali
cristiane) possiamo notare che insieme a statue di divinità
dall’aspetto umano e pacifico convivono altre dall’aspetto
demoniaco e feroce.
Una
spiegazione superficiale è quella che vuole che queste
raffigurazioni mostruose servano a scacciare gli spiriti maligni dal
luogo sacro. Una chiave di lettura più profonda le interpreta invece
come figure simbolica finalizzate a proiettare l’osservatore in una
dimensione in cui il mondo del divino è al di là di una
connotazione morale del bene e del male. I demoni raffigurati
rappresenterebbero inoltre gli ostacoli interiori che il praticante
deve superare per raggiungere l’illuminazione, il “risveglio”.
Compito
del praticante (notare: “praticante”, perché è la pratica in
ultima analisi che fa acquisire la conoscenza, non l’elaborazione
intellettuale) è quello di liberarsi dalle catene del falso Sé, la
parte “egoica” dell'IO. Tale
compito è impedito dai propri demoni di cui il principale è proprio
l’attaccamento a questo Io (o “ego” come spesso si sente
chiamare) e tutto ciò che da esso scaturisce: orgoglio, vanità,
arroganza, presunzione, ecc. Questi demoni, chiamati Mara, sono
considerati l’ostacolo al superamento definitivo del dolore di
questa esistenza e al risveglio della coscienza profonda.
In
riferimento a questa visione del demone, come un aspetto interno
dell’uomo che ne impedisce la maturazione spirituale,esiste
una tradizione e una pratica,
ben documentata e diffusa ancora oggi soprattutto nel buddismo
tibetano, chiamata Chàòdâ.
L’idea
alla base della pratica del Chàòd è quella che i demoni non vanno
combattuti ma nutriti.
Attraverso
delle visualizzazioni, si offrono ai demoni e alle divinità un
banchetto preparato con il proprio “corpo” in modo da placare i
sintomi o gli impulsi negativi da essi generati.
I
praticanti del Chàòd sono perfettamente consapevoli del significato
psicologico della cerimonia del macabro banchetto e gli spiriti
maligni che si evocano durante il cerimoniale non sono altro che
proiezioni della mente del praticante, raffigurazioni della sua
inquietudine e delle sue paura, mentre le divinità sono immagini
simboliche della sua brama e dei suoi desideri.
Tsultrim
Allione, insegnante buddista occidentale contemporanea, scrive:
…nella
pratica di sfamare i demoni, offriamo la cosa più preziosa (il
nostro corpo) a ciò che è più minaccioso e spaventoso (i nostri
demoni), e così facendo sconfiggiamo la causa di ogni sofferenza,
che in linguaggio buddhista è l’egocentrismo. L’approccio del
nutrire anziché combattere i demoni garantisce un modo di prestare
attenzione ai demoni dentro di noi, evitando i pericoli del reprimere
ciò che temiamo (…) in questo modo, colmiamo la scissione tra
”bene e male, e il potenziale nemico si trasforma in alleato.
Così l’energia che era stata bloccata nella lotta diventa una
forza positiva e potenzialmente protettiva, un daimon
anziché un demone.
Per
Allione, da un punto di vista marcatamente psicologico e che perciò
esula dall'insegnamento buddista classico, il demone è come
l’archetipo Ombra di Jung, ciò che di noi e della nostra
personalità la mente considera inaccettabile, indesiderabile e per
questo tenta di reprimere e disconoscere relegandolo all'inconscio e
proiettandolo sugli altri.
Fin
tanto che rimane inconscia, l’Ombra è potente, carica di
affettività distruttiva, autonoma, ossessiva, possessiva, ha il
potere di disorientare l’Io e di destrutturare la persona. Alienata
dalla personalità e proiettata all'esterno sulle situazioni della
vita o sulle altre persone, l’Ombra è sperimentata come un destino
persecutorio.
Scrive
Jung:
…è
spesso tragico constatare quanto evidentemente un uomo rovini la
propria vita e quella degli altri, rimanendo tuttavia totalmente
incapace di capire fino a che punto l’intera tragedia derivi da lui
e da lui sia sempre alimentata e coltivata. Ma come lo stesso Jung
sottolinea se l’ombra o il demone non viene reso conscio e
integrato, opererà di nascosto sabotando ogni sviluppo positivo
della nostra vita.
A
questo proposito l’analista junghiano Aldo Carotenuto sottolinea
che:…si
tratta di una integrazione assolutamente basilare, poiché non si può
procedere nell'evoluzione psichica fintanto che non si abbia preso
coscienza delle forze distruttive interne che si oppongono alla
realizzazione della totalità psichica, e quindi delle nostre
potenzialità inconsce. Se
non elaboriamo coscientemente la dimensione demoniaca non potremmo
attingere alla nostra forza vitale.
E’
importante sottolineare come nella pratica del Chàòd non si cerchi
di contrastare con la forza le emozioni negative che vorremmo
eliminare ma al contrario gli si offre nutrimento, la massima forma
di accoglienza. Questa accoglienza rompe l’equilibrio disfunzionale
che si autoalimenta e che è mantenuto in essere proprio dall'energia
psichica che viene impiegata per contrastare una parte che
rifiutiamo.
Una
volta eliminata questa energia, che alimenta il circolo vizioso, il
problema si risolve perché viene trasceso, semplicemente non esiste
più perché non esiste più il “conflitto” tra due forze che
“riabbracciandosi” vengono reintegrate in noi.
Un
ulteriore elemento interessante è la caratteristica esasperazione di
alcune emozioni che i praticanti del Chàòd ricercano durante il
rito. Nei testi è spesso suggerito di trovare luoghi macabri e
terrifici che inducano al praticante paura e angoscia in modo da
generare un processo catartico che sconfigga all'origine le emozioni
che il praticante stesso cerca di amplificare. Questo approccio alla
cura è comune anche del pensiero occidentale, sia antico che
moderno, basti pensare, in ambito psicoterapico, ad alcune tecniche
come l'esagerazione del sintomo usate sia nella gestalt che in
psicoterapia strategia.
Ad
esempio, nei confronti di un problema che si presenta come spontaneo
ed irrefrenabile, come coazioni a ripetere, ossessioni, etc, la
terapia breve strategia spesso prescrivere il sintomo stesso, in
quanto in questo modo si mette la persona nella situazione
paradossale di dover eseguire, volontariamente, ciò che è
involontario ed incontrollabile e che ha sempre tentato di evitare.
L’esecuzione
volontaria del sintomo annulla il sintomo stesso, che per essere tale
deve essere qualcosa di incontrollabile. Questa tecnica è definita
da Watzlawick prescrizione del sintomo. A questa tecnica spesso si
associa la prescrizione all'esasperazione del sintomo, quindi, ad
esempio nel caso delle compulsioni, non solo si prescrive il sintomo,
ma si invita a ripetere la stessa compulsione per un numero
determinato di volte, né una volta di più, né una volta di meno.
Riferimenti
e link:
Nessun commento:
Posta un commento